Rubrica Slow Food: Il Pezzente della montagna materana
«Promuovere il diritto al piacere, difendere la centralità del cibo e il suo giusto valore»: questa la mission di Slow Food. È sulla base di tale obbiettivo che la condotta locale Slow Food Magna Grecia Metapontum inaugura una rubrica settimanale, un viaggio tra il cibo, la tradizione e la cultura lucana, seguendo il filo rosso della nostra storia.
Nel quinto appuntamento vi parleremo del Pezzente della montagna materana, nato dall'arte contadina del recupero.
IL SUINO NERO LUCANO
Siamo tra i boschi della montagna materana, il cuore verde della Basilicata, oggi in buona parte compresi nel Parco regionale di Gallipoli Cognato e delle Piccole Dolomiti Lucane. È in questa grande area naturale protetta, con un’estensione superiore ai quattromila ettari, a cavallo delle provincie di Matera e di Potenza e comprendente i territori delle comunità montane dell’Alto e Medio Basento e della Collina Materana, che viveva un’antica razza autoctona per la quale fino a poco tempo fa si temeva la totale estinzione. Stiamo parlando del suino nero lucano, razza legata alle vicende storiche e pastorali dell’Italia appenninica, in passato diffusa in tutta la regione, per essere poi completamente abbandonata agli inizi del ventesimo secolo, poiché soppiantata dall’introduzione incontrollata di razze bianche cosmopolite, sulle quali si era maggiormente concentrata l’attenzione degli allevatori.
Vent’anni fa l’avvio di un progetto di recupero, realizzato da più soggetti pubblici e privati: l’ALSIA (Agenzia Lucana di Sviluppo e Innovazione in Agricoltura), l’Università degli Studi della Basilicata, l’Associazione Provinciale Allevatori e la Comunità Montana Medio Basento. L’obbiettivo finale: incrementare il numero di suini neri al fine di rendere poi possibile l’avvio di una produzione di salumi e la realizzazione di una filiera di prodotti di qualità. I risultati non si sono fatti attendere: nel 2015 si contano già 18 aziende zootecniche che detengono individui di suino nero locale con più di 1600 capi in totale. La razza, dotata di elevata rusticità, intesa come resistenza alle patologie e facilità di adattamento alle condizioni climatiche, ed attitudine al pascolamento, viene oggi allevata allo stato semi-brado, evitando il sistema di stabulazione fissa ad eccezione del periodo di parto e lattazione per le scrofe e i suinetti.
IL PEZZENTE DELLA MONTAGNA MATERANA
È dalla rinnovata disponibilità di materia prima di qualità che oggi è possibile riscoprire sapori tanto antichi quanto unici; stiamo parlando del Pezzente della montagna materana, già notato e fatto notare, nel 1931, dalla primissima edizione della guida del Touring Club, che consigliava ai propri lettori di stazionare nella provincia dei Sassi proprio per degustare questo particolare insaccato. Il Pezzente, che rientra a far parte dei presidi Slow Food, deve il proprio nome a una realtà che appare a noi, oggi, quasi remota; a necessità andate ormai perdute o che risultano tanto più scontate rispetto a un tempo in cui nulla lo era: conservare il più a lungo possibile la carne ed evitare ogni spreco. Come? Ricorrendo all’insaccatura e applicando uno dei proverbi popolari più antichi del mondo: «Del maiale non si butta via niente». E nulla, in cucina, è stato mai così vero, soprattutto nella cucina contadina, dove l’idea dello “spreco”, un po’ per umana necessità un po’ per indole, rappresentava una sorta di sfregio al lavoro umano e al sacrificio animale. Dunque se i tagli più nobili sono tutt’ora riservati alla produzione di soppressate, pancette e guanciali, al Pezzente vengono destinate le parti più povere, dalla gola fino allo stomaco, compresi i nervetti difficili da sminuzzare e il grasso avanzato dalle lavorazioni precedenti. Ecco perché la preparazione stessa di questo particolare salume, prodotto a cavallo tra il mese di novembre e di marzo, ci racconta una quotidianità contadina di cui alcuni strascichi sono giunti fino a noi; testimoniando quella che potremmo a tutti gli effetti definire come una forma di rispetto, una vera e propria arte del recupero.
Tutto ciò che oggi sarebbe stato buttato, viene ancora pazientemente sminuzzato in piccole striscioline per poi essere tritato. Al composto così ottenuto viene aggiunta polvere di peperone dolce di Senise, finocchio selvatico, aglio fresco e sale marino. Segue l’arricciatura, carne e concia vengono amalgamate premendo energicamente l’impasto con i pugni chiusi, fino a quando esso non diventi perfettamente omogeneo. Le stesse operazioni di un tempo che, ora come allora, sono compiute in modo assolutamente manuale. Per verificare che il condimento e la salatura siano stati effettuati nel modo giusto, si preleva una parte dell’impasto e la si soffrigge in un tegame, solo dopo tale verifica si potrà procedere con l’insaccatura.
Il tempo minimo di stagionatura previsto è pari a due settimane per il consumo in cucina, il Pezzente è infatti molto utilizzato nella preparazione del cosiddetto “sugo rosso” con il quale si condisce la pasta fatta in casa o come succulento accompagnamento di verdure selvatiche o uova fritte per un prelibatissimo secondo piatto. Per il consumo crudo, al fine di gustarlo a fette, è necessario attendere almeno una ventina di giorni in tutto.
Simona Pellegrini