Intervista al finalista lucano del XLIX Premio Campiello
Al teatro Millepini di Asiago si è tenuta lo scorso 29 luglio alle 18.00 la tappa vicentina −penultima della tournee estiva− di presentazione dei cinque finalisti del premio Campiello, prima della cerimonia di premiazione finale, di sabato 3 settembre al Teatro La Fenice di Venezia. Tra Maria Pia Ammirati con “Se tu fossi qui” (Cairo Editore), Ernesto Ferrero con “Disegnare il vento” (Einaudi), Giuseppe Lupo con “L’ultima sposa di Palmira” (Marsilio), Federica Manzon con “Di fama e di sventura” (Mondadori) e Andrea Molesini con “Non tutti i bastardi sono di Vienna” (Sellerio) spicca il romanzo di Giuseppe Lupo (nativo di Atella) che narra con vivide pennellate, a cavallo tra realismo e surrealismo, le tante storie che dal 23 novembre 1980 verranno trascinate intrecciandosi e confluendo in un unico destino poliedrico. Questo piccolo mondo antico −che si trovava più che in erranza, in transumanza− verrà travolto, assieme al rintocco dello scandire dei soli. Cosa dopo le macerie? Come ci ricorda Publilio Siro nelle Sentenze, “Il giorno seguente è lo scolare del precedente”.
Quando ha iniziato a scrivere questo libro? Cosa le ha dato l’input?
Ho vissuto personalmente ciò che racconto, vivevo in Lucania nei giorni del terremoto e quindi conservo ricordi e suggestioni. Da trent’anni (da quando è avvenuto il sisma) avevo in mente di dedicare un romanzo a questo tema, ma ho voluto aspettare del tempo per lasciar sedimentare le cose, ripensare alla storia di quei giorni, che hanno modificato il paesaggio circostante e anche la mia geografia interiore. In realtà scrivere il romanzo è stata un’operazione a strati: prima i racconti del falegname, poi il diario dell’antropologa, che sta a cornice.
Scrive a mano o al computer?
Ho una pessima grafia, dopo un quarto d’oro non riesco a riconoscere nemmeno un appunto. Per questo motivo (ma anche per ragioni di praticità e di velocità) uso il computer. Però correggo a mano, sui fogli di carta.
Secondo Salgari “Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”. Per lei invece cos’è?
Condivido la frase del nostro maggiore scrittore di avventure, chiuse sempre dentro una stanza. Però ci aggiungerei un altro motivo: scrivere è anche una maniera per ricostruire, rimettere in ordine, il mondo.
Pasolini pensava che “Tutta la nostra vita è fatta di segni e immagini che restano impressi nella nostra memoria". Qual è l’immagine che ha impressa nella mente quando pensa a quel sisma?
L’immagine dei paesi secolari aggrappati con le unghia ai costoni dei monti, che si sgretolavano scivolando a valle. L’immagine delle persone anziane in strada oppure ammassate nelle scuole elementari, senza più dignità e quella che oggi chiameremmo privacy.
Ogni cosa è figlia di ieri e condiziona il domani. Che cicatrice ha lasciato quel terremoto in Lucania?
Ha fatto morire un mondo e ne ha iniziato un altro, non so dire se migliore o peggiore. Ha modificato l’antropologia delle comunità appenniniche, aprendo una stagione di improvvisi e illusori cambiamenti.
L’autore ha qualcosa in comune con i suoi personaggi?
Sono un individuo scisso tra la fiducia nella razionalità, che è la caratteristica dell’antropologa, Viviana Pettalunga e il fascino del mito, che invece è la componente di mastro Gerusalemme, il falegname. Insomma i due protagonisti del romanzo potrebbero rappresentare simbolicamente il mio modo di percepire il mondo. E poi c’è tutta la schiera di personaggi che compaiono nei racconti del falegname: quando non vengono dai ricordi d’infanzia, sono proiezioni della mia interiorità
Come vorrebbe fosse letto il suo libro?
Nei pomeriggi estivi, all’ombra della canicola. Favorirebbe l’accesso alla festa di immagini e di visioni che vi sono contenute.
Ha alle spalle diversi premi e il suo ultimo libro è nella cinquina finalista del Premio Campiello. Finora che cosa le ha dato maggiore soddisfazione?
L’idea che qualcosa uscito dalla mia fantasia sia condiviso da persone sconosciute. Quando le persone che hanno i tuoi libri ti fermano e ti parlano dei tuoi personaggi come se fossero persone reali.
C’è una domanda che vorrebbe le facessero?
Sì, perché fai tutto questo. Risponderei che scrivere è un modo per essere felici.
Nel mondo precario dell’editoria cosa consiglia a chi vuole seguire le sue orme?
Di lavorare, lavorare, lavorare. L’unico segreto per realizzare i propri progetti è di zappare la terra e seminare fino all’ultima goccia di sudore. Poi, magari non al cento per cento, la terra darà i frutti.
Ilenia Litturi