Gli Italiani di New York

FOTO HOME MOLINARIMaurizio Molinari, corrispondente dagli Stati Uniti de “La Stampa” ha scelto come sfondo per la stesura del suo libro “Gli italiani di New York”, edito da Laterza, la più grande città italiana oltreoceano: New York e l’ha analizzata minuziosamente, raccontandola attraverso sessantotto storie di italiani che ce l’hanno fatta e hanno animato (e continuano a farlo) la metropoli.

Ne è uscito un distillato condensato d’amore. “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” parola di Marcel Proust.


Chi è Maurizio Molinari?

Un corrispondente, ovvero una via di mezzo fra una vedetta e un traduttore. Raccontare cosa avviene all'estero agli italiani significa infatti da un lato avvertirli su quanto sta maturando all'orizzonte e dall'altro tradurre in continuazione realtà culturali assai differenti.


Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?

L'unicità degli italiani di New York. Questa è l'unica città al mondo dove diverse identità italiane vivono nello stesso spazio ma congelate nei rispettivi e diversi momenti storici.


Scrive a mano o al PC?

Prendo appunti sul Blackberry e scrivo sul laptop ma porto sempre con me penna e blocchetto di carta, per sicurezza.


Cosa rappresentano i baffi in copertina?

La curiosità. È lo strumento fondamentale per esplorare storie e vicende, nostre e altrui. Scoprendo novità anche lì dove apparentemente non vi sono.


Che cosa significa per lei scrivere?

Descrivere i fatti separati dalle opinioni, per contribuire a rafforzare la conoscenza come a sconfiggere i pregiudizi.


Che rapporto esiste secondo lei, tra l’immaginario collettivo e la realtà americana?

La realtà americana supera quotidianamente l'immaginario collettivo che in Italia, o in altri Paesi, la accompagna. La capacità di innovazione e divulgazione che l'America esprime è difficile da cogliere e descrivere anche per gli americani stessi. Credo dipenda dalla forza che nasce dall'essere una nazione di pionieri, coloni e inventori costantemente impegnati a creare e ricostruire.


L’America, diceva Pavese, è “il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti”. Cos’ha scoperto in America?

Ciò che ho scoperto, e che più continua a sorprendermi, è la divulgazione come metodo per diffondere la conoscenza. Quando Obama in un discorso dice "Parigi" spiega subito dopo "capitale della Francia" proprio come un ricercatore di laboratorio quando scrive l'articolo sui suoi studi lo rende comprensibile a tutti. L'idea di doversi far comprendere sempre da tutti è uno dei pilastri di una democrazia fondata sulla partecipazione dei singoli.


Esisteste una differenza tra l’essere un italoamericano e l’essere italiano?

Esiste come a New York esistono più identità italiane congelate in diversi tempi storici. Basta scegliere un qualunque percorso dentro New York per riuscire a percorrere secoli di Storia nazionale. Dall'Italia dei dialetti a quella della globalizzazione. Il punto però è che a mio avviso ognuna di queste identità è ugualmente "italiana". La differenza fra gli italiani nati in Italia e nati all'estero tende a diminuire, dando vita a una versione nuova e più globale della nostra identità.


Per Tabucchi “La patria è la lingua”e per lei?

Per me la Patria è la memoria. Siamo ciò che ricordiamo della nostra famiglia, della nostra città, della nostra nazione. È la perdita di memoria che indebolisce l'identità. Ad esempio la decisione presa il 25 gennaio 1985 dal governo italiano, all'epoca guidato da Bettino Craxi, di liberare il comandante della SS Walter Reder, responsabile dell'eccidio di Marzabotto dopo un referendum con cui proprio Marzabotto si era opposta a tale scelta, significò un indebolimento dell'identità nazionale.


Gli italiani di New York, chi erano e chi sono?

Rappresentano e racchiudono tutte le identità italiane, passate e presenti. Conoscerli è come attraversare la nostra Storia e le nostre trasformazioni.

Lucani a New York?

Certo, soprattutto a Brooklyn. Ma non solo. Basti pensare all'ex vicecomandante della polizia di New York, Grasso, che mi ha fatto vedere le foto della nonna lucana, tradendo forte emozione.


È mai stato in Basilicata? Cosa l’ha colpita di più?

Il carattere degli abitanti, gente granitica.


Come vorrebbe fosse letto il suo libro?

Non solo dall'inizio alla fine ma anche dalla fine al principio perché l'ordine dei capitoli e dei sottocapitoli è soggettivo. Ognuno può iniziare a esplorare gli italiani di New York dalla pagina, e dalla storia, che preferisce.


Qual è la più grande soddisfazione che le ha dato finora il suo libro?

In un ateneo di Queens mi sono trovato davanti ad una ragazza afroamericana che parlava solo inglese ma ha tenuto a dirmi che si sentiva italiana, per scelta e vocazione. Anche lei è una di noi.


C’è una domanda che vorrebbe le facessero?

Le domande che mi piace più ricevere sono frutto di sfida e curiosità. Come quelle di questa intervista.


Cosa consiglia a chi vorrebbe seguire le sue orme?

Consiglio di prepararsi a sacrifici infiniti ed altrettante emozioni. Gli uni accompagnano le altre, sovrapponendosi in continuazione.


Ilenia Litturi


FOTO COPERT. GLI ITALIANI DI NEW YORK

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