Ho una storia per te
Paul Valéry scrisse che la memoria è l’avvenire del passato. Sarà vero? La risposta è racchiusa nel libro, “Ho una storia per te” un romanzo di 176 pagine (Edizioni Spartaco), magistralmente scritto da Attilio Coco, un insegnante e critico cinematografico lucano,
che durante una camminata ha avuto una folgorazione abbagliante, una sorta di stella cometa che l’ha accompagnato fino alla stesura del romanzo che narra dell’intreccio di più destini che confluiranno nel fiume chiamato vita. Commovente il cameo finale con l’omaggio a Sandro Pertini che ricordava come “Il miglior modo di pensare ai morti è pensare ai vivi”. SudItaliaVideo l’ha intervistato in esclusiva.
Chi è Attilio Coco?
Un lettore onnivoro. Sono nato nel 1958 a Potenza, dove ho vissuto fino al 1992. Poi mi sono trasferito a Roma dove tuttora vivo. Quella per la lettura è una passione divorante, più forte della passione per la scrittura perché è stata il mio iniziale e più intimo modo di cominciare a conoscere il mondo. Una passione legata ai miei ricordi da bambino. Mia nonna, ogni volta che ritornava a casa dal mercato, mi portava un libricino di favole illustrate. Credo di avere imparato a leggere su quei libri di quatto o cinque pagine. A volte, con grande fatica, cercava di leggermi qualche riga. Era nata a Genzano di Lucania nel 1909 e non aveva avuto modo di imparare bene a leggere. Ma quel poco che riusciva, ha cercato di trasmettermelo facendomi da prima maestra. Se poi chiedevo a mio nonno Attilio, la risposta era sempre la stessa: «ma io non so leggere». Era del gennaio 1906 ed era nato a Barile, di lingua arbëreshë. A lui devo l’amore per la narrazione orale. A volte passava ore a raccontarmi storie, in quella lingua che non capivo, ma che aveva un suono tanto dolce da affascinarmi comunque. Non so perché la lettura mi catturasse così tanto in una casa dove c’erano due soli libri: Le mie prigioni di Silvio Pellico e Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Gelosamente conservo il primo libro che ho letto in edizione integrale: Pinocchio che è il mio libro, quello a cui devo molto della formazione del mio immaginario. Mi era stato regalato dai nonni per una Befana. Avevo sei anni. Tutto quello che è venuto dopo, e mi riferisco alla passione per la scrittura, deve ogni cosa a quegli anni e a questo mio incontro così particolare con la pagina scritta, che per me è stata e continua a essere un’avventura. Anche la mia attività di critico cinematografico, ormai ventennale, è stata segnata più dal mio essere lettore che dall’essere spettatore. È difficile e strano a dirsi, ma è così. Non dovrei confessarlo, però tra scegliere di andare a vedere un bel film e di cominciare a leggere un libro, io non ho dubbi.
Che cosa significa per lei scrivere?
Rimanere dentro a un mondo che amo e poi cercare di raccontare le storie che, per un verso o per un altro, mi hanno catturato e che credo sia importante raccontare. C’è un po’ di presunzione in questo, me ne rendo conto. Ed è legata a una specie di sentimento di sé contro il quale non posso e non voglio far nulla. Forse un po’ un destino dal quale non ho alcuna intenzione di scappare. Ogni volta che parlo di questa cosa non trovo mai le parole giuste, e allora ricorro sempre a una citazione. Sono i primi versi di una poesia di Edgar Lee Master, l’autore dell’Antologia di Spoon River, intitolata Il suonatore Jones: “C’è una vibrazione là nel tuo cuore, e quello sei tu e se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita”. Se poi io riesca a farlo come si deve, ovviamente sta sempre agli altri valutarlo. In ogni caso scrivere non ha per me alcun valore terapeutico perché scrivere costa fatica e io sono un pigro. Se potessi sempre scegliere, preferirei leggere.
Secondo Mario Vargas Llosa “Uno scrittore non sceglie i suoi argomenti, sono questi ultimi a sceglierlo”. È successo anche a lei?
Devo dire di sì. L’idea di scrivere Ho una storia per te, un romanzo che racconta una vicenda della guerra partigiana e di tutte le lacerazioni che ha provocato in uno dei protagonisti, mi è venuta in un momento particolare in cui, come scrittore, come cittadino e come insegnante, ho ritenuto di dover prendere posizione su alcune cose, atteggiamenti, proposte culturali che mi sembravano – e mi sembrano – fuorvianti.
Cosa l’ha spinta a scrivere “Ho una storia per te”?
Due cose in particolare. La prima, prendere posizione rispetto a quanto si andava sostenendo qualche anno fa circa la necessità di cambiare idea sulla guerra partigiana e di arrivare a una pacificazione nazionale che rendesse uguali, nella mentalità e nella memoria collettiva, coloro che erano morti per difendere un’idea di nazione legata ancora al fascismo e coloro che, invece, sono morti per dare all’Italia una prospettiva e un futuro di libertà e di democrazia. La mia idea è questa: non ci si può esimere da uno stringente giudizio storico. Non credo possa esserci nulla, né parole né gesti né altro, capaci di smorzare il dolore. Da questo punto di vista il dolore è sacro e inviolabile. Poi però, come dicevo prima, bisogna interrogarsi sulle ragioni della Storia. E pensare che la guerra partigiana ha dato il suo insostituibile contributo alla liberazione dell’Italia dal ventennio fascista e dall’occupazione nazista. Da lì è venuta la nostra Costituzione. E sono venute la libertà e la democrazia. Beni supremi, a me pare. La seconda cosa che mi ha spinto a scrivere questo romanzo, ha un carattere più personale. Un giorno, di quattro anni fa nell’Appennino pistoiese passeggiavo con un mio fraterno amico. Comincia a raccontarmi una storia davvero particolare. Una storia che ha segnato la sua vita. Più di sessant’anni prima, quando era un ragazzino, suo papà, che era un maresciallo dei carabinieri, venne ucciso in un agguato partigiano. Quello che mi catturava e stupiva era l’assoluta assenza di un sentimento di odio. Il suo racconto era centrato sul suo bisogno di conoscere chi in quel giorno lontano aveva sparato. Non per un sentimento di vendetta o che, ma per riannodare in qualche modo i fili della sua storia personale. Vede, quel mio amico i conti con la Storia li aveva fatti da tempo, e la sua scelta di sinistra è stata sempre convinta, forte e fuori discussione. Mentre lo ascoltavo, mi veniva in mente una storia parallela. Che magari, proprio in quel momento e forse proprio da quelle parti, un anziano partigiano stesse raccontando a qualcun altro la storia di lui che spara al maresciallo e che poi, per una vita, si mette sulle tracce del figlio dell’uomo a cui ha sparato. Per vedere come è cresciuto, come si è organizzato l’esistenza. Per capire fino in fondo gli esiti di quel suo gesto di tanti anni prima. In quel momento stavo per dire al mio amico tutto ciò che mi passava per la mente ma, in maniera molto egoistica, ho pensato di non dirgli nulla. Perché quella era una bella storia per un romanzo. Mi comprenda, come mi ha compreso e giustificato lui: se avessi aperto bocca, non avrei mai scritto Ho una storia per te.
Ci racconti del suo libro.
In un giorno di caldo estenuante, lo scrittore Pietro Mattei riceve la visita del suo amico ottantenne Duilio Foresti. Visita inaspettata che lo toglie dall’apatia del non fare niente che lo assale un po’ per il caldo e un po’ perché non riesce a scrivere una riga del grande romanzo sulla Storia d’Italia che si è imposto di scrivere ormai da anni. La visita però non è proprio solo una visita di cortesia, perché il vecchio Duilio ha una storia da raccontargli. Questa è un po’ la sinossi stringata del romanzo. Poi dentro c’è tutto il mondo di Pietro Mattei, il quartiere dove vive, i libri di cui si è circondato, le sue idiosincrasie, gli amici, la sua famiglia. E c’è il mondo di Duilio che, agli occhi di chi lo conosce da diversi decenni, sembra concentrarsi tutto nella cabina di proiezione del cinema Orion, dove per quarant’anni ha lavorato come proiezionista. Per tutti questi decenni, Duilio ha portato dentro di sé il segno di una forte lacerazione. E non ne ha mai parlato con nessuno. Fino a quel pomeriggio.
Cosa viene prima: la trama, i personaggi o l’ambientazione?
In questo caso forse l’ambientazione. Mi piaceva che tutta la storia si svolgesse nel microcosmo di un quartiere. Un posto dove tutti si conoscono quasi da sempre e dove tutti si rispettano. Dove la vita quotidiana è scandita da ritmi, facce, occupazioni consuete. Uno spazio sicuro dove i protagonisti si sentono sempre a casa perché è uno spazio che conoscono e nel quale sono conosciuti. Un ambiente protetto. L’ambiente ideale perché accada, all’improvviso, qualcosa di rivoluzionario. Un ambiente di questo tipo ha condizionato anche la caratterizzazione dei personaggi che sono individui tranquilli, rispettosi delle altrui vite e degli altrui pensieri. Per nulla invadenti. Un ambiente e delle persone in qualche modo ideali. Era proprio quello che mi serviva per scrivere un romanzo dai toni pacati ma dal contenuto forte. Un contenuto che passa, che deve passare e che riesce a passare, senza la necessità che nessuno urli più degli altri per imporre una verità. Non c’è bisogno di urlare per dire da che parte stare quando i valori che si contrappongono sono tanto opposti come lo sono l’idea di un’Italia ancora fascista e quella di un’Italia libera e democratica.
C’è un passaggio, un aneddoto, un estratto che predilige?
Sono diversi, in verità. Le pagine in cui il giovane Duilio cammina col padre nel bosco di castagni e gli sente raccontare, per la prima volta, la sua storia di socialista. Sono pagine che ogni volta mi ricordano come il valore dell’educazione sia sempre nell’esempio e non nelle parole. Ci sono poi le pagine in cui Pietro Mattei è alle prese con la sistemazione della sua libreria o le pagine nelle quali si perde dietro ai ricordi della sua infanzia un po’ solitaria e scontrosa. E poi, ovviamente, il lungo racconto di Duilio in cui ci sono gli anni del fascismo nei quali è cresciuto, la sua progressiva presa di coscienza politica, i mesi della lotta partigiana. C’è un personaggio che amo proprio tanto e che appare solo un paio di volte, l’uomo con il panama. Un personaggio che mi affascina, così solitario, così misterioso.
Ha qualcosa in comune con i suoi personaggi?
Da quando Flaubert ha detto ̶ sarà poi vero?̶ “Madame Bovary c’est moi”, si è ingenerata una gran confusione. Pietro Mattei è un lettore onnivoro e uno scrittore pigro. Come me. Ma anche gli altri, a ben guardare hanno caratteri, vezzi, idiosincrasie, amori che possono somigliare ai miei. Ma non credo che si tratti di avere cose in comune. Per me scrivere significa prima di tutto scrivere su cose che conosco meglio di altre. Non sarei capace di scrivere di cose che non conosco. O, se dovesse accadere, inserirei la storia in un universo che mi è noto e posso scommettere che ci sarebbero sempre libri dentro ad ogni mio libro.
Come vorrebbe fosse letto il suo libro?
Come un romanzo nel quale si parla anche di Storia. Ma, soprattutto, come un romanzo che cerca di catturare il lettore con strategie che appartengono alla narrazione e non all’esigenza di comunicare a tutti i costi una morale. Certo, è un romanzo con una chiara ottica di partenza. Se avessi voluto rinunciare al piacere di narrare una storia per fare a tutti i costi una morale nuda e cruda, allora avrei scritto un saggio.
Premesso che non si finisce mai di imparare, che cosa ha imparato finora dal mestiere di scrivere?
Le sono particolarmente grato per questa domanda perché mi offre l’occasione di citare uno scrittore che amo molto: Georges Simenon. Il mestiere di scrivere mi ha insegnato che se si vuole raccontare qualcosa, e quindi anche la vita di qualcuno, bisogna cercare sempre di comprendere e mai di giudicare.
Al salone del libro di Torino si è parlato del futuro del libro. Cosa succederà a suo parere?
In realtà non mi sono posto il problema in termini drammatici. Questo perché associo al libro l’idea di storia narrata e l’esperienza di lettore e credo che siano cose che non scompariranno mai. Non vedo come un cataclisma l’avanzare della tecnologia e gli e-book non sono il diavolo da combattere. Anzi. Se poi mi si chiede se io preferisco il libro cartaceo, da toccare, da odorare, da sfogliare agli e-book, cosa devo dire? Che non mi ci vedo in un mondo senza scaffali. Se lo ricorda Guglielmo da Baskerville, il monaco protagonista del Nome della rosa di Umberto Eco che, durante l’incendio della biblioteca, prima ancora di pensare a mettersi in salvo “risolse di salvare i libri con i libri”? Ecco, è una bella immagine. Però un lettore è un lettore anche con un e-book. E Guerra e pace è sempre guerra e pace. Come, del resto, Pinocchio è sempre Pinocchio.
Qual è la maggiore soddisfazione per uno scrittore?
Credo sia sentirsi dire di aver scritto una storia bella che è stata capace di tenere viva l’attenzione, la curiosità, il desiderio di continuare ad andare avanti nella lettura. Almeno per me è così.
Che consigli sente di poter dare a chi vorrebbe sfondare nel mondo dell’editoria?
Ho pochi, pochissimi consigli, perché ognuno trova da sé la propria strada. Ma bisogna avere tanta pazienza e non farsi guidare dall’ansia di pubblicare a ogni costo. E poi, ma questa è una mia ossessione, che si entra nel mondo della scrittura dall’altra porta. Quella della lettura.
Ilenia Litturi