America, italiani e il problema della lingua Intervista esclusiva a Nancy Carnevale
Nancy Carnevale è una professoressa associata di storia alla Montclair State University del New Jersey.
Nel 2010 si è aggiudicata l'American Book Award con il libro “A New Language, A New World: Italian Immigrants In the United States, 1890-1945” [Una nuova lingua, un nuovo mondo:immigrati italiani negli Stati Uniti 1890-1945 N.d.T.] pubblicato dalla University of Illinois Press.Nel libro l’autrice intraprende un viaggio alla ricerca del senso di appartenenza a una cultura e alle problematiche linguistiche che hanno portato centinaia di migliaia di immigrati italiani a fare i conti con la società americana, che affonda le proprie radici nel mito del WASP (White Anglo-Saxon Protestant).Per molti, la lingua ha contribuito involontariamente allo sradicamento, alla crisi d’identità e all’adattamento a una realtà profondamente diversa dalla propria, ostile e incomprensibile sotto molti punti di vista. Come scriveva Pasolini "il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà".
Azzeccatissima la copertina del libro, in cui viene omaggiato Eduardo Migliaccio, in arte Farfariello, un campano che grazie alla sua irriverente satira era divenuto un idolo tra gli italiani Oltreoceano.
Ogni libro ha la sua storia e per scoprirla abbiamo intervistato in esclusiva l’autrice.
Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?
Sono cresciuta in una comunità italo-americana del New Jersey in cui la maggioranza della gente non parlava molto bene l’inglese. Spesso si parlava dei sacrifici e non mancavano certo le battute in merito. In famiglia, mia madre era consapevole che la sua vita fosse limitata dalla sua conoscenza dell’inglese. Per me era ovvio ma lei lo ribadiva di continuo. Tutti parlavano molisano perché non conoscevano tanto bene l'italiano ed era chiaro che la lingua fosse un argomento nevralgico tanto in Italia quanto in America, ma contrariamente a quanto si possa pensare, la questione della lingua in America non è stata studiata e approfondita visto il ruolo centrale dell’inglese nel plasmare l’identità nazionale degli Stati Uniti e quando ho capito che si trattava di un campo inesplorato sapevo di aver trovato pane per i miei denti.
Come ha scelto il titolo?
Ho preso spunto dall’autobiografia di Pascal D’Angelo, “Son of Italy” [Figlio d’Italia N.d.T.], un operaio immigrato autodidatta che divenne un poeta di una certa fama e si spense prematuramente. Nel suo libro scrisse "della fatica di confrontarsi con una nuova lingua e un nuovo mondo". Una storia commovente, scritta magnificamente. Nella nuova terra trovò una nuova lingua e un nuovo mondo, senza mai abbandonare i suoi connazionali.
Parlo in un capitolo della sua figura e della "traduzione" non solo di parole ma soprattutto degli immigrati stessi nella nuova realtà.
Perché ha scelto l’intervallo di tempo che va dal 1890 al 1945?
Perché è stato il periodo dell’emigrazione di massa.
Cos’è cambiato dopo il 1945?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli italiani, gli europei dell’Est e quelli dell’area mediterranea si sono amalgamati meglio allo stile di vita americano, pagando con il contributo dato in guerra, l'accettazione. Questo fatto si è riflesso anche nella diminuzione delle “Little Italies”. La letteratura che si doveva occupare di questi fenomeni invece non è stata al passo con i tempi. Dal 1965, con l’avvento delle nuove leggi sull’immigrazione, ai primi anni Ottanta, gli italiani sono diventati la comunità di origine europea più popolosa degli Stati Uniti. Ma si trattava di una integrazione di facciata perché nelle città e nei sobborghi non era cambiato nulla.
Emigrare non significa semplicemente spostarsi da una nazione a un’altra.
Come scrivo nel mio libro, è anche la traduzione di se stessi in una nuova realtà. Dovrebbe esserci –si spera- oltre all’acquisizione della lingua del nuovo paese, l’incontro con una nuova cultura e con tutto ciò che ne deriva. Il bagaglio culturale che un immigrato si porta appresso muterà attraverso il prisma del nuovo paese. L’identità stessa verrà in qualche modo modificata e sarà una nuova sfida. Trasferirsi in un altro paese comporta inevitabilmente dei mutamenti.
Ludwig Wittgenstein diceva che «i limiti della mia lingua sono i limiti del mio mondo». Cosa ne pensa?
Sono convinta che la lingua ci modelli, modelli le nostre percezioni, il capire, il modo in cui ci esprimiamo. I linguisti dibattono in merito e io concordo un po' con tutti.
Qual è stata la parte più difficile della stesura del libro?
La fine perché ci sono sempre un sacco di cose da dire, da aggiungere ma anche con l’inizio non si scherza. Nonostante si tratti di una ricerca storica è per me un argomento strettamente personale. Crescendo, sapevo di essere bilingue inglese e dialetto molisano anziché italiano. Tra gli italiani c'era molta vergogna e ci si sentiva molto combattuti per la poca dimestichezza con l'italiano. L’aver dovuto confrontarsi con questo tipo di problematiche ha rallentato la stesura del libro, portandomi a far confluire le diverse esperienze linguistiche delle varie etnie. Non tutte le esperienze sono state negative.
Non si è mai sentita “diversa”?
Per gran parte della mia vita, sicuramente sì, essendo cresciuta dove c’era una forte diversità culturale tra la mia famiglia e la comunità da un lato e il mondo americano in cui vivevo e andavo a scuola dall'altro. Negli anni Sessanta e Settanta, molti giovani di seconda generazione come me, si sentivano una minoranza in America, ma al tempo stesso non appartenevano nemmeno al mondo dei propri genitori. Penso che la mia scelta di diventare docente di storia italo-americana sia stato il modo per integrarmi meglio alla mia vita. Attraverso la mia carriera scolastica prima e l’insegnamento poi, sono riuscita a mantenere un legame con le mie radici.
Essendo una storica, sono entrata in una cerchia più grande di colleghi e amici italo-americani e non mi sento più così diversa e se dovessi esserlo, per lo meno sono in buona compagnia.
Cosa significa crescere italiani in America?
Al giorno d’oggi penso che molti italo-americani siano così lontani dalle loro radici che il loro senso di italianità è limitato alle tradizioni di famiglia. Essendo cresciuti in America, quello che possono conoscere attraverso i vari mezzi di comunicazione è una glorificazione o una denigrazione della mafia o di altre immagini negative. In altri casi si identificano ad esempio con la grandezza della cultura, con Dante o Leonardo o con la cucina e la moda. Essendo poi la maggioranza di origine meridionale, non ha modo di apprezzare le proprie origini. Non è colpa loro, non gli è stato insegnato a scuola, anche se fortunatamente le cose stanno cambiando grazie al maggior numero di programmi di studi italo-americani nelle università.
Chi sono oggi gli italo-americani?
Sono un gruppo molto variegato in termini di posizione sociale, orientamento politico, sessuale… è difficile fare ogni tipo di generalizzazione. Una nota di merito va all'incremento degli studi sulla storia e la cultura italo americana. Sono stati tanti gli ostacoli da superare nel mondo accademico.
È fondamentale capire il nostro passato. Un'esperienza che potrebbe essere molto utile anche all’Italia che ora si trova a dover fronteggiare problemi legati all’immigrazione.
Quali sono i peggiori stereotipi sugli italiani?
Lo stereotipo sulla criminalità organizzata persiste ma ce ne sono altri, tipo che gli italo-americani sono ignoranti, sempliciotti, fissati con il sesso ad esempio. E sono tutti molto presenti nei mezzi di comunicazione di massa.
Geraldine Ferraro disse che «se si riesce a prendere al balzo tutto ciò che l’America ha da offrire, non c’è nulla che non si possa raggiungere». Condivide?
Penso che l’America non abbia offerto tutto a tutti e in ugual misura. Gli italiani hanno trovato la fortuna per un certo lasso di tempo e sono riusciti ad integrarsi per il fatto di essere bianchi anche se nei primi decenni non è stato affatto così. Hanno sofferto molto e non tutti ce l’hanno fatta in America. L’opportunità è importante e le persone indifferentemente dal loro ceto sociale sono riuscite a coglierla, ma non è certo stato facile.
Quali consigli sente di poter dare a chi vuole scrivere?
Trovare delle guide che sappiano consigliare e affiancarsi a bravi scrittori. Ho avuto la fortuna di conoscere e di confrontarmi con molte scrittrici italo-americane di New York e del New Jersey, zona in cui vivo. Faccio parte di un gruppo di scrittrici italo americane che si chiama “Malia Collective”, in cui prendiamo ispirazione una dall’altra e in cui ci supportiamo a vicenda perché la comunità è fondamentale.
Altri progetti nel cassetto?
Sto scrivendo un libro sulle relazioni tra afro-americani e italo-americani nelle aree urbane e suburbane del New Jersey. Voglio analizzare questi due gruppi etnici. Gli italo-americani sono stati spesso definiti razzisti e anche se si sono verificati degli scontri, è un credo radicato nella società americana ma c'è stato anche un episodio di identificazione e fratellanza tra i due gruppi che è stato poco trattato.
Cambiando discorso, se la dicessi Basilicata, cosa le verrebbe in mente?
La cruda e selvaggia bellezza che caratterizza il Sud Italia. Apprezzo l’arte, la cultura e l’architettura delle grandi città italiane del Nord, ma sono legata al Sud, ai suoi paesaggi, alla sua gente. È una sensibilità diversa che sento molto familiare.
Ilenia Litturi