L’arpa sul palcoscenico
Matera, Palazzo Lanfranchi
Concerto del 26 settembre 2010
L’arpa sul palcoscenico
Testo per programma di sala
Pietro Andrisani
Il concerto L’arpa sul palcoscenico celebra l’uso di questo nobile strumento da parte di alcuni compositori lucani e della scuola napoletana di cui sono parte, ad eccezione del tramutolese Vincenzo Ferroni, formatosi nella scuola francese di Parigi.
Ci riferiamo:
all’arpa che Egidio Romualdo Duni presenta quale strumento-personaggio sul palcoscenico del teatro parigino della Comédie italienne nell’opera L’école de la jeunesse (La scuola della giovinezza), lodata da Goldoni e, in seguito, ammirata dal giovane Alessio Prati (Ferrara,1750, 1788) che in omaggio a quello strumento-personaggio, rimusicò cinque arie da salotto per voce e arpa della medesima opera;all’arpa che Nicola Zingarelli colloca sulla tribuna di un teatro domestico come strumento congeniale al canto della non più giovane Fanciulla Eolica che rivive gli amori ancora e i caldi sensi che affidò alla sua cetra (Orazio, c. IV. 9, 12);all’arpa che nel Fieramosca (1896) di Vincenzo Ferroni, accompagna la struggente Serenata cantata da un giovane innamorato sulla marina di Barletta, mentre nel vicino castello si consuma il rapimento della bella Ginevra di Monreale da parte di Cesare Borgia e dei suoi sgherri;all’arpa di Marcello Perrino, che accompagna l’aria Pace serena e stabile sul terrazzo di casa di Giuseppe Saverio Poli divenuto un domestico osservatorio astronomico, sede di graditi convegni nei quali, sotto il cielo stellato si crea una miscellanea di dinamiche scientifiche ed espressioni romantiche;all’arpa che i girovaghi filarmonici di Viggiano, coniugando felici sonorità etniche con fulgide armonie di dotta mano facevano risuonare in chiostri ed androni, su slarghi e piazze di cento e cento città europee e americane, esibendola anche come loro passaporto melico.
Nella seconda parte del concerto una suite di danze di derivazione occitanica con opportuni interventi dell’arpa, ci conduce nel Tribunale della Corte d’Amore e di Bellezza della regina Berta ove venivano esaltati oltre al motivo dell’amore, quello della gioia e della primavera, stagione del desiderio, della rigenerazione, delle rosee aspettative e del tripudio. Figlia di Lotario di Lorena, madre di Ugo di Provenza, Berta (? 860-Lucca, 925) tenne la corte più splendida che allora fosse in Italia. Donna ambiziosa, molto bella e, secondo il vescovo Liutprando di Cremona, di costumi poco riservati per cui, quando ella morì, la dileggiò coniando il detto finito è ormai il tempo che Berta filava.
Nel gennaio del 1765 E. R. Duni (Matera, 1709-Parigi,1775) rappresenta al teatro di corte di Versailles e alla Commedie Italienne di Parigi L’école de la jeunesse, opèra-comique in tre atti che il librettista Louis Anseaume (Parigi, 1721-‘84) trae da Le Marchand de Londres ou L’histoire de Gorge Barnwel dell’inglese Thomson. Nell’opera, Sophie, fanciulla sensata e fortemente innamorata, fatta sua la prudenza e la saggezza della proba Themire, sconfigge la cricca vacua e adulante di cortigiani del salotto della sua rivale in amore, la vedova Hortense, riconducendo a sè il suo amoroso, l’incauto Cléon. In casa di Hortense, durante i festeggiamenti per la promessa del probabile matrimonio tra l’indeciso Cléon e l’avveduta vedova, un tenore, accompagnato dal cembalo e dall’arpa, intona Laissons gronder la sagesse, (Lasciamo trionfare la saggezza) aria che elogia le gioie del sincero amore. Nella prima parte dell’aria una melodia semplice ma incisiva, con un cadenzato quasi rituale, modula il trionfo della saggezza; nella seconda, un vocalizzato permeato di fregi alleluiatici canta l’arte del gioirsela. Qui Duni, con una non comune capacità di indagine psicologia tesa ad ampliare gli orizzonti espressivi della scena teatrale, mette a punto lo spirito salottiero presentando direttamente sul palcoscenico l’arpa, il cembalo ed un cantante, un coerente organico che felicemente delinea e interpreta i virtuosi disegni dei sentimenti espressi nel testo poetico dell’aria mentre i personaggi di contorno della scena vi acquistano più calore di vita.
A cavalllo tra Sette e Ottocento a Napoli, era di moda mettere in scena nei teatrini di corte del patriziato locale e regnicolo residente, brevi drammi per musica in forma di monologhi o con pochi personaggi; gli interpreti erano quasi sempre rampolli della nobiltà; nel minuscolo golfo mistico sedeva un quartetto d’archi e, a volte, strumenti eventuali o il solo forte-piano. Quei minidrammi in musica che dovevano soddisfare le aspettative dei buongustai filarmonici di palazzo spesso, divenivano veicoli di cultura generale. Gli argomenti dei piccoli drammi erano desunti dalle stanze del Tasso, dalle ottave fantastiche del Furioso, da commoventi episodi della Commedia di Dante. Non di rado ricordavano eroine della storia e della mitologia greco-romana, quali Ero, vergine sacerdotessa di Afrodite a Sesto, Didone, sfortunata amante dell’infido Enea. Molti libretti nascevano dalla querula ma dotta penna del poeta arcade Gaspare Mollo duca di Lusciano e venivano messi in musica da nobili dilettanti (Domenico Capece-Scondito, Domenico Corigliano di Rignano, Michele Carafa, principe di Colobraro, Gaspare Selvaggi), e da maestri di cappella quali il gravinese Salvatore Fighera, l’altamurano Domenico Tritto, Nicola Zingarelli.
Di Nicola Zingarelli (Napoli, 1752-Torre del Greco, 1837) oggi eseguiamo l’aria Santa pace tratta dal monologo Saffo, la Saffo che nella sua più non verde età dall'eccelsa vetta della famosa Leucade, accompagnandosi all’arpa, rivive gli anni in cui mesta sulle corde d’eolica cetra per le sue conterranee fanciulle s’addolorava (Or c. II, 13, 25) e con tempra maschia modulava la sua lira sui numeri di Archiloco (Or. ep.1, 19, 28), Oltre che dalla poesia così languorosamente seducente e determinata nel pensiero, l’autorevolezza dell’aria Santa pace emerge dalla fluidità dell’armonioso discorso musicale rivelato ora con caldi accenti lirici ora con misurata veemenza e da un forbito dialogo tra voce e arpa (qui il pianoforte riassume il quartetto d’archi in partitura). Inoltre l’aria è accreditata dall’eloquenza delle immagini sonore espresse con abile tecnica vocale e allettanti concenti drammatici, prerogative che dilateranno, in seguito, col virtuosismo canoro delle cabalette di Rossini, del Mercadante giovane e di Bellini.
Vincenzo Ferroni (Tramutola, Pz, 1858-Milano, 1934). Uomo probo, di piacevole compagnia, decisamente alieno da celebratismi ed esibizionismi è stato compositore di ispirazione classica e valoroso didatta; la mancanza di estimatori coraggiosi e di editori interessati, perché stranieri o non più esercitanti tale professione, hanno contribuito all’oblio di composizioni di pregio elevato per dottrina ed arte. Noi che sentiamo pesare l’abbandono e la dimenticanza di quelle sudate carte vorremmo che almeno nei teatri della Lucania si cominciasse a ricordarlo con uno dei suoi lavori drammaturgicamente stimolante e musicalmente gradevole come il Rudello, che incarna il trovatore Juffrè ch’usò la vela e il remo a cercar la sua morte (Francesco Petrarca, Trionfi, Amore, IV, 52). L’opera è intrisa di belle pagine musicali ed ha come fulcro centrale il fatidico incontro bacio-morte di Juffrè con la bella Melisenda, principessa di Tripoli, commovente episodio ricordato con interesse emozionale da noti poeti e drammaturghi (Uhland, Heine, Browning, Carducci, Rostand). Al concorso Sonzogno del 1889 il Rudello venne classificato al terzo posto, dopo Labilia di Nicola Spinelli e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e fu premiato in Francia, al concorso bandito da Le Figaro nel 1898.
Vincenzo Ferroni studiò al conservatorio di Parigi armonia con Augustin Savard (1814-1884), massimo esponente francese di didattica musicale e alta composizione con Jules Massenet (1842-1912). Nel 1888 si trasferì a Milano per coprire la carica di insegnante di composizione rimasto vacante dopo la morte di Amilcare Ponchielli (1834-‘86), il noto autore de La Gioconda. Nei quarantat’anni di insegnamento a Milano il Ferroni ha diplomato un gran numero di valenti compositori e cattedratici italiani ed esteri. Ne ricordiamo alcuni: il boemo Riccardo Pick Mangiagalli, Italo Montemezzi, Ettore Pozzoli, Virgilio Ranzato, Felice Lattuada. Un suo allievo, Ezio Carabella, famoso per i commenti musicali per films dell’era mussoliniana, in “Critiche, Polemiche e Curiosità Musicali” del 1927-1928 così scriveva del suo maestro: ... seduto al bel pianoforte a coda il maestro per ore e ore, circondato dalla sua scolaresca era assorto a correggere fughe, quartetti, liriche, tempi di sinfonia e a teorizzare sapientemente sulle formule musicali liriche e sinfoniche tramandateci dai sommi maestri. Negli incontri avuti ai concerti che dirigeva, Giannandrea Gavazzeni mi confidava che egli medesimo ed altri allievi del M° Ildebrando Pizzetti, a volte, si recavano di soppiatto nella classe del Ferroni decorata di partiture, spartiti, strumenti musicali di ogni sorta, per ascoltare le sue lezioni profuse di illuminanti riferimenti storici e artistici. Poi commentava la validità dei lavori musicali del Ferroni splendenti di dottrina musicale e di godibile ascolto. Nell’articolo di Marco Vinicio Recupito, apparso nel 1932 in “Artisti e Musicisti Moderni”, si legge fra l’altro: la casa del M° Ferroni rispecchia subito quella modesta sobrietà che fu ed è una delle caratteristiche doti del suo animo buono e vibrante. Non fronzoli pescecaneschi adunque, né sfarzi stracittadini, ma una austerità alimentata da quella severa disciplina d’arte che egli seppe imporsi, rispecchiando la serena e pur bonaria figura di apostolo fervido dell’insegnamento che, per quarant’anni, sempre con lo stesso slancio, la stessa passione, seppe spargere a piene mani tra i suoi innumerevoli discepoli i tesori d’una tecnica impareggiabile. Vincenzo Ferroni fu compositore di vena nobile e squisitamente raffinata, purificò il suo linguaggio musicale da elementi stilistici più effimeri, tentò di superare gli schemi del dramma verista improntando il suo teatro musicale ad una melodiosità e delicatezza armonica tipicamente francesi di facile presa sentimentale, propese ad aperture sinfoniche di derivazione tedesca. La gamma di elementi spirituali della sua musica va dalla tenerezza sentimentale alla nostalgia della terra e dei cari lontani. Ma l’aspetto più tipico dello stile del tramutolese è la rivalutazione della modalità con l’adozione di tetracordi di pitagorica memoria sui quali impronta l’invenzione melodica e le impalcature armoniche. Peculiarità che caratterizzano principalmente la seducente Fantasia eolica per arpa, oboe, corno, doppio quartetto d’archi e contrabbasso e il genuino Himne d’un patre Lydien pour le piano. Il maestro di Tramutola ci ha lasciato un vario repertorio di musica da camera e da chiesa, sinfonie e poemi sinfonici, dieci melodrammi tutti rappresentati. Egli fu anche poeta; spesso compose i versi per le sue liriche e i libretti per i suoi melodrammi. Uno dei più stimolanti per teatralità e vigoria musicale risulta il Fieramosca che rappresentò con felice successo al Teatro Sociale di Como il 25 gennaio del 1896 e che dedicò a Laura Pigna Carminati Brambilla. Serenata a mare del programma di oggi è una suggestiva pagina di musica intonata alla fine del secondo atto del Fieramosca. È cantata sulla spiaggia del castello di Barletta da un ardente innamorato che implora amore alla sua vezzosa sfinge mentre nei vicini accampamenti militari fremono i preparativi per la storica disfida e nel castello si consuma un turpe rapimento. Qui il netto contrasto dell’immaginifico idillio còlto nella linfa sentimentalmente passionale della serenata col torvo quadro del rapimento spietato, genera un’articolata quanto suggestiva scena di dialettica degli opposti.
Giuseppe Saverio Poli (Molfetta, 1746 – Napoli, 1825), precettore di Francesco I di Borbone, medico, astronomo di fama universale, titolare della cattedra di scienze naturali all’Università federiciana, Presidente della Real Accademia Militare della Nunziatella, conciliò i gravosi impegni di lavoro scientifico e didattico col diletto della poesia in lingua e dialettale che dedicò al mondo marino e planetario, ai meravigliosi siti del golfo della sirena Partenope ed ai notevoli eventi di natura politica e domestica. Si cimentò nella poesia per musica (arie da camera, cantate encomiastiche, inni, parafrasi su canti biblici), messa in partitura con note dei maestri di cappella Giuseppe Millico, Giovanni Paisiello, Luigi Capotorti ed altri. I versi dell’aria Pace serena e stabile, composti in stile tranquillo e gradevole, sono resi romanticamente suadenti da una melodia semplice e allettevole che Marcello Perrino (Napoli, 1750 ca.-dopo il 1816) profuse di tenerezza sentimentale e la tonificò con genuine armonie e raggianti colori fonici soavemente emessi dall’amalgama del registro centrale della voce muliebre con smaglianti arabescate d’arpa, con sensuali suoni del violoncello e del canto dolcemente malinconico del corno inglese. L’aria fu composta per dare un tenue substrato melico alle disamine conviviali vissute sul terrazzo della propria casa napoletana di via San Potito, dove dame interessate, studiosi e attenti uditori si riunivano per osservare l’incantevole panorama di stelle e di pianeti dal suo potente telescopio. A Marcello Perrino, poeta, dotto musicista dilettante, storico, direttore amministrativo del Real Collegio di Musica San Sebastiano, è legata la provvidenziale riforma del conservatorio di musica napoletano con la quale veniva recuperata l’etica e la morale dell’intero apparato scolastico attraverso il trattamento degli alunni nella didattica, nel vestiario e nel vitto. Veniva inoltre ristabilito lo stipendio al personale servente e amministrativo, agli insegnanti lo si proporzionò al grado che occupavano e all’importanza dello strumento che insegnavano. Marcello Perrino fece della meritocrazia la bandiera di quell’istituto. Francesco Florimo che fu uno dei primi allievi a godere della riforma Perrino, sostiene che senza la quale non avremmo avuto i compositori Vincenzo Bellini, i fratelli Ricci, Saverio Mercadante.
Nel 1856, Saverio Mercadante (Altamura, 1795-Napoli, 1870), allora direttore del conservatorio San Pietro a Maiella, per sostituire il vetusto Miserere di Nicola Zingarelli che da venti anni veniva eseguito il mercoledì il giovedì e il venerdì della Settimana Santa nella chiesa dell’Istituto, ne compose uno che potesse soddisfare le aspettative delle nuove generazioni di fruitori musicalmente sempre più esigenti. Il Miserere mercadantiano ebbe il battesimo nella medesima chiesa, il pomeriggio del 19 marzo 1856. Alla concertazione e alla esecuzione presero parte oltre duecento alunni, tra cantanti e strumentisti. L’effetto che produsse sull’entusiasta uditorio che traboccava la chiesa e la piazza antistante fu sorprendente. Effetto che per oltre un decennio quel Miserere produsse fino al fanatismo nel pubblico locale e forestiero desideroso di ascoltare il sublime cantico divenuto lestamente oggetto di lode e diletto. Lo storico Emanuele Rocco diceva che napoletani e stranieri facendo sfoggia di vestimenta, in quei tre santi giorni accorrevano alla chiesa di San Pietro a Maiella per ascoltarvi il più celebrato dei salmi. Pur restando nel clima profondamente religioso Mercadante, sconvolgendo ogni tradizione, riproponeva la concezione rituale della musica sacra in un contesto sostanzialmente laico, creando una composizione che rispondeva perfettamente alle nuove esigenze canore della collettività che chiedeva musiche sempre più drammaticamente accattivanti e rispondenti alle grandi architetture sonore delle arie del melodramma in voga. Particolare menzione merita la terza strofa del salmo, l’Amplius lava me, permeata da un linguaggio timbrico-dinamico dovuto a una cantabilità ariosa e morbida, intessuta con virtuosi giochi contrappuntistici, fraseggi sviluppati in progressioni armoniche e sapientemente arricchita da una tavolozza di vari colori strumentali. Sono elementi espressivi atti a disegnare un suggestivo affresco fonico, ad esaltare l’accorata invocazione del credente che anela a liberarsi dalle iniquità del peccato e contemporaneamente riferiscono la dotta e robusta personalità musicale dell’autore. Anche i girovaghi arpisti di Viggiano vennero sedotti dalle bellezze armoniche e melodiche dell’Amplius che prontamente inclusero nel loro composito repertorio musicale profuso di canzoni popolari ed elaborate melodie di Jommelli, Cimarosa, Piccinni, Paisiello Rossini Bellini Donizetti. Un repertorio che piaceva alla Napoli allegramente maliconica e malinconicamente allegra, la Napoli che calzava zoccoli, vestiva abiti smunti e quella che ostentava il lusso dalle portantine, dalle carrozze tirate da cavalli selezionati e circondata da famigli in livrea, la Napoli eterogenea ma partecipante e, secondo la tasca, generosamente munifica. Fra gli spettatori dei loro concerti vi erano poeti e pittori che conciliavano l’ascolto della buona musica con la ricerca di nuovi soggetti ispiratori. Tali erano Pier Paolo Parzanese, Filippo Palizzi, Nicola Sole, Pasquale Mattei, Giuseppe Regaldi tutti nomi che hanno dedicato immagini poetiche e ritratti animati agli ambulanti cantori di Viggiano che modularono l’Amplius con una patina di colore gradevolmente popolaresca, smalto che solo ambulanti di razza sanno offrire.
Nell’ottobre e nel dicembre del 1765, rispettivamente a Fontainebleau e a Parigi, E. R. Duni mette in scena La Fée Urgèle, l’opèra-comique che risulterà il suo capolavoro. Il libretto, miscuglio di elementi fantastici e realistici, è di Charles Simon Favart (Parigi, 1710- 1792) che derivò il soggetto da Ce qui seduit les dames, un frizzante lavoro di Voltaire il quale, a sua volta, l'aveva desunto da I racconti di Canterbury. L'impronta di natura etico-sociale dell’opera viene evidenziata a grandi linee nel terzo atto durante la celebrazione del processo al cavaliere Robert condannato alla pena di morte morale per aver baciato una fanciulla contro l’apparente suo consenso. Al ritmo di una compassata marcia, il Cortège, la Regina Berta, quindi, giudici e avvocati, tutti appartenenti al cosiddetto sesso debole. fanno pomposo ingresso nel Tribunale della Corte d’Amore e di Bellezza, scortati da azzimati cavalieri. Berta prende posto sul seggio del giudice supremo, le anziane del consiglio occupano le prime file, le giovani nell’ordine inferiore degli scanni. Dopo aver conciliato ed assolto alcune giovani coppie, la Corte chiama sul banco degli imputati il cavaliere Robert che, per essere assolto deve sciogliere l'enigma: Cosa piace alle donne di ogni età? Grazie ad una vecchia che gli aveva svelato l'arcano segreto, l'ardua prova viene superata. La Corte esulta. Si festeggia l'evento. Vengono introdotti nel salone delle feste les Provenzales e con loro si dà principio al Divertissement, tripudio di danze con musiche piacenti, dall’andamento risoluto, giubilante ed agile come le tambourin e le rigaudon, o descrittive come lo spigliato li chivau frus, (la danza che George Bizet, a torto, chiamò farandola, nell’Arlesienne), di portamento patetico-sentimentale come la canzona, mentre la raffinata courdelle esprime un contegno sussiegoso e galanteggiante. Del Diverstissement des Provenceaux Duni ne fa un ordinato nucleo di danze convenzionali nella forma, raffinate nella materia; sono piccole sculture sonore cementate da una coerente alternanza di tempi e di toni, di impasti timbrici e di diversificate espressioni umorali accomunati dalla felice aderenza alla rigogliosa cultura di vita castellana di un medioevo dall’intenso sentimento cavalleresco, d’indole cortigiana e vivamente attratto dallo spirito d’avventura. Di delicata vena sentimentale è la romance che la gelosa Veille intona mentre va in cerca dell’incurante cavaliere, sempre assediato da festevoli attenzioni di fanciulle adulanti. Al termine della romance, finalmente la Veille può avvicinarsi al graziato Robert per ricordandogli della promessa fattale quando gli ha suggerito la risposta liberatrice dalla dura condanna inflittagli dal Tribunale di Berta. L’ardimentoso cavaliere che ha sempre affrontato ogni sorta di pericolo anche ora è disposto a superare l’ostacolo di una qualsiasi ricompensa avanzata dalla vecchia. Mi devi sposare! è l’imprevista e perentoria richiesta. E lui: avrei preferito la condanna di prima.
Pietro Andrisani
Giornate Europee del Patrimonio
Matera
Palazzo Lanfranchi
Concerto del 26 9 10
Programma
Egidio Romualdo DUNI LAISSONS GRANDER LA SAGESSE
(Matera, 1709-Parigi, 1775) per tenore, arpa e pianoforte
Nicola ZINGARELLI SANTA PACE
(Napoli, 1752-Torre del Greco, 1837) per soprano, arpa e pianoforte
Vincenzo FERRONI SERENATA A MARE
(Tramutola, Pz, 1858-Milano, 1934) per tenore e arpa
Marcello PERRINO PACE SERENA E STABILE
(Napoli, 1750 ca.–dopo il 1819) per soprano, corno inglese, violoncello e arpa
Saverio MERCADANTE AMPLIUS LAVA ME
(Altamura, Ba, 1795-Napoli, 1870) per soprano, tenore, corno inglese, violoncello e arpa
E. R. DUNI DIVERTISSEMENT LES PROVENCEAUX
per soprano, oboe, violoncello, arpa e pianoforte
Annonce-Cortège
Tamburin
Courdello
Rigaudon
Ariette Canzona
Li chivau frus
Romance
Durata totale del concerto: 0h,40’
La ricerca e l’elaborazione delle musiche è a cura di Pietro Andrisani.
I brani in programma, eccetto Divertissement des Provenceaux (eseguito la prima volta a Matera nel 1979), sono presentati in prima esecuzione moderna.
Gruppo dei concertisti:
Désirée Migliaccio soprano
Nicola Sette tenore
Annamaria Manicone arpa
Giuseppe Mongelli oboe e corno inglese
Salvatore Ditaranto violoncello
Luigi Gallipoli pianoforte