Dalla Civita Severiana si può giungere al IL MITREO di Matera

di Pietro Andrisani

Tra le spelonche di Matera scavate nel tufo alle pendici della punta del triangolo che separa il Sasso Caveoso da quello Barisano è stata individuata una spelonca disaffrescata nella quale, il 25 dicembre dei primi secoli dell’era cristiana veniva ufficiato un rito liturgico celebrante la Rinascita del Sole, ossia, del dio Mitra.

L’ambiente è a pianta rettangolare ed ha una superficie di 50? mq circa (9,50 x 5,80 m) con volta a botte alta metri 3,50 ed è dotata di un pozzo, due banconi (podia) scavati nel tufo. I banconi sono distanziati tra di loro di due metri circa e di un metro dalle mura laterali. Come altri mitrei dell’epoca giunti a noi affrescati, dotati di ara, di sculture e bassorilievi che esprimono fatti e personaggi relativi ai misteri del culto mitraico, anche la volta di quello materano doveva riprodurre un cielo stellato e i segni dello zodiaco. Mentre sulle pareti laterali, si presume, fossero dipinte le varie fasi della vita e delle opere del dio. Sul fondo, a 2 metri d’altezza, tre edicole arcuate: la centrale alta 40 cm e profonda 35, le laterali alte 35 e profonde 30. Nella centrale, davanti alla quale vi era l’ara, doveva essere la statuina rappresentante il dio Mitra nell’atto di uccidere il toro (tauroctonia); ai lati i dadofori (lampadofori) o geni Cautes e Cautopates i quali con fiaccole in pugno assistevano alla scena dell’uccisione del toro da parte del dio.

La grotta comunica con l’esterno col solo ingresso dal quale vi si accede scendendo 9 gradoni. L’ingresso è orientato ad est e in modo tale che la mattina del 25 dicembre i raggi del sole nascente fossero perfettamente allineati tra il medesimo ingresso e l’edicola centrale, quella che custodiva la statua del dio.

Qui si veniva a creare un’aura di magia e mistero connessa alla nascita del dio Mitra che, secondo la leggenda, gemma dalla scintilla provocata da una selce percossa.

Sul lato sinistro della cripta vi è, in parallelo, un'altra spelonca che probabilmente doveva servire per il rito dei primi gradi di iniziazione. Anch’essa comunica con l’esterno col solo ingresso sempre ad oriente dal quale vi si accede scendendo 71 gradoni; sul muro di fronte vi è una sola piccola edicola che doveva ospitare la statua del dio che sacrifica il toro. Di certo in questa spelonca avveniva il rito della tauroctonia essendo alla sinistra dell’ingresso il pozzo per quel sacrificio. Una terza grotta probabilmente veniva utilizzata da stalla dei tori sacrificali.

Tra i Mitrei più vicini al materano sono quelli di Napoli e l’importantissimo Mitreo di Santa Maria Capua Vetere. L’importanza eccezionale del mitreo capuano è data dagli affreschi parietali che rappresentano lo svolgimento delle varie fasi del rito per la iniziazione dei neofiti.

Negli altri Mitrei finora scoperti non si sono quasi mai rinvenuti affreschi, ma solo sculture: da qui la unicità, più che la rarità e l’importanza dello speleo capuano. Esso ha la consueta forma di un’aula sotterranea a forma rettangolare, con i due banconi (podia) per i fedeli e le agapi rituali lungo i lati maggiori; la decorazione ad affresco arricchisce tutto l’ambiente: la volta a botte è dipinta a stelle, la parete est conserva uno stupendo nudo muliebre simboleggiante il pianeta Luna; sulle pareti laterali due lampadofori (i geni Cautes e Cautopates) e scene di iniziazione al culto del dio; in fondo, infine, l’affresco del Mitra Tauroctono.

La divinità è rappresentata in uno sgargiante costume frigio color porpora, nell’atto di immergere la spada nel collo di un toro bianco; un cane e un serpente si lanciano a lambire il fiotto di sangue che sgorga dalla ferita.

La figurazione può essere interpretata con riferimento alle scritture zooastriane, ed in rapporto con i riti agrari dell’antico culto iranico a base di sacrifici cruenti e di danze.

Il culto di Mitra è certamente di origine indoiranica. Gli studiosi del ramo sostengono che il credo di questo dio ha avuto origine in Babilonia ed è stata intimamente legata alle dottrine di Zoroastro. Questa religione venne introdotta in Italia sul finire del I° secolo a C. e subito si diffuse in tutto l’impero dei Cesari. Accadde proprio in un momento della massima importanza perchè caratterizzato da una profonda crisi spirituale dei popoli romani. Questo culto si espanse innanzitutto tra le milizie imperiali che l’avevano importato ma pure tra gli schiavi e i gladiatori. Non a caso quasi tutti i mitrei giunti a noi si trovano nei luoghi ove erano stanziati i militari; non a caso il Mitreo di Santa Maria Capua Vetere è interrato nelle vicinanze del locale anfiteatro e della Scuola dei gladiatori dalla quale partì la storica rivolta di Spartaco.

Prima di portarsi in Grecia e in Roma, il culto di Mitra era passato dai Persiani, in Cappadocia, dove Strabone (64 aC-21dC), che vi era stato, racconta di avervi veduto un gran numero dei suoi sacerdoti. Plutarco (46 ca.-127ca.), nella vita di Pompeo, sostiene che questo culto fu portato a Roma al tempo della guerra dei pirati, nell’anno di Roma 687, e in seguito si diffuse in particolar modo nei secoli bassi dell’Impero. D’allora tutti gli imperatori romani favorirono tale religione che venne diffusa soprattutto tra le milizie. Uno dei più convinti sostenitori sembra sia stato Alessandro Severo (208-235?), il probabile fondatore di alcuni insediamenti di Montescaglioso.

Prima di Alessandro Severo, nel 218 suo cugino, Eliogabalo2 proveniente dalla Siria, aveva introdotto a Roma il EL GÈBAL il Sol invictus.

L’inizio della fine del mitraismo a Roma cominciò con Costantino il Grande (editto di Milano 313) e terminò con l’Editto di Tessalonica (380) promosso da Teodosio (347-395). Dal 380 infatti si dà principio alla pratica di occultare i mitrei costruendovi sopra chiese di religione cristiana. Anche il mitreo di Matera dovette subire la medesima sorte perché su di esso venne edificata la chiesa intitolata a san Domenico [?]

Aureliano (214-275) instaurò il culto nel 270 e ne consacrò il tempio del Sol Invictu il 25 dicembre del 274 nella festa “dies natalis Solis Invictu”; nel 336, il 25 dicembre, grazie a papa Giulio I, divenne finalmente il giorno del natale cristiano.

La storiografia medievale e rinascimentale ha rivolto sempre ampi panegirici a Costantino e Teodosio, nel medesimo tempo si è mostrata avara di impegno conoscitivo verso la vita e le opere degli imperatori romani sostenitori del mitraismo. Essi, però sono apparsi quali personaggi protagonisti della drammaturgia musicale del secondo seicento e del secolo successivo. Il dramma musicale Eliogabalo vede la luce a Parma nel 1668 in occasione del battesimo del principe Odoardo, figlio del signore di quel ducato: libretto di Aurelio Aureli (prima metà del sec. XVII- dopo il 1708), musica del cremonese Francesco Cavalli (1602-1676). Successivamente l’opera venne rappresentata nei teatri di Venezia (1668); Napoli (1669); Genova (‘70) ove la partitura venne elaborata dal maestro Pietro Simone Augustini, Bologna (‘71) con musica di Giovanni Antonio Boretti; Roma (‘73); Milano (‘74); per la terza volta a Venezia (‘77); Palermo (‘78).

Anche la biografia dell’imperatore Aureliano interessò il teatro musicale barocco: ne furono autori il librettista Giacomo Dell’Angelo e il musicista bresciano Carlo Pallavicini (1630-1688). Ma il sostenitore del mitraismo più amato del teatro musicale del secolo XVIII è stato l’imperatore che la tradizione vuole abbia dato i natali alla Civita Severiana. Il poeta cesareo Apostolo Zeno (166-1750) alla corte di Vienna (1718-1728), precorrendo la riforma del melodramma metastasiano, operata sulle direttive dell’Ars poetica di Quinto Orazio Flacco, che voleva un melodramma con una struttura più razionale con forme entro schemi aulici e moralistici, nel 1717 volle mettere in scena al San Giovanni Crisostomo di Venezia, l’Alessandro Severo (musica di Antonio Lotti) nel quale fa rivivere riflessi dello squisito buon senso, degli arguti motti, dell’acuta osservazione con cui viene colta la saggezza comune della vita umana nell’eleganza linguistica e letteraria del poeta venosino. Col distico della terza scena del IV atto Se da aquila vuol far, si acceca il gufo / e se vuol far da bue crepa il ranocchio non riflette il Parvum parva decent (Epi. I. 7. 44), Metiri se quemque suo modulo ac pade verum est (Epi. I. 7. 93), Jure perhorrui / late conspicuum tollere verticem (C. III. 16, 18-19)3? Successivamente l’Alessandro Severo dello Zenno vide le scene dei più importanti teatri italiani ed esteri messo in musica da Fortunato Chelleri, Antonio Lotti, Francesco Pollaroli, Giuseppe Orlandini, Gaetano Maria Schiassi, Geminiano Jacomelli, Andrea Bernasconi e dai napoletani Francesco Mancini e Domenico Sarro.

Noi Montesi, amanti della nostra storia locale, dobbiamo qualche ringraziamento all’Alessando Severo di Apostolo Zeno perché mediante l’indagine conoscitiva di questo melodramma e degli inni al Sole dell’epoca della Roma Imperiale - dei quali si farà cenno più avanti – siamo giunti all’individuazione del Mitreo di Matera.

Gli esegeti sostengono che il dio Mitra sta ad indicare il fuoco perché nato da una selce percossa. Plutarco afferma che il dio, desideroso di essere padre pur essendo avverso alle donne, dormì con una pietra con la quale concepì un figliolo che chiamò Dimorfo. Questo dio veniva qualificato col titolo di invincibile, come appare in una antica iscrizione: Al Dio Sole l’invincibile Mitra. Infatti l’appellativo invincibile è stato dato al Sole, perché nessun uomo o cosa può deviare o trattenere il suo corso, le sue influenze.

I Romani adottarono questo dio come avevano fatto con quelli delle altre Nazioni conquistate.

A quei Romani siamo debitori dei monumenti dedicati al dio Mitra sopravvissuti all’assalto dei secoli in quanto, fuori dell’Impero dei Cesari, non si è trovata ancora alcuna immagine persiana di questo dio. Le sue più ordinarie figure e sculture rappresentano un giovane col berretto frigio, con tunica e manto che esce ondeggiando dalla spalla sinistra. Egli tiene un ginocchio sopra un toro abbattuto, e trattenendogli il muso con la mano sinistra, gl’immerge con la destra un pugnale nel collo. Gli storici sostengono che l’azione sta a simboleggiare la forza del Sole quando esso entra nel segno del toro.

Di solito la figura di Mitra viene accompagnata da differenti animali, che sembrano aver relazione con gli astri e i segni dello zodiaco.

Non v’è dubbio che Mitra fosse un simbolo del Sole; Stazio (Napoli,45-96), in tal senso, si esprime con l’invocazione seguente:

O Sole, siimi favorevole,

o ch’io t’invochi sotto il nome di Titano,

o sotto quello di Osiride,

oppure sotto quello di Mitra,

all’orchè negli antri della Persia

tu premi le corna di un toro ribello,

e che fa tutti gli sforzi per non seguirti.

Dall’inno al Sole di Amenothes IV (Egitto. III sec. aC):

Quando ti levi bello all’orizzonte del cielo,

O Disco, vita, inizio di vita!

Quando ti levi all’orizzonte orientale,

tutte le terre riempi delle tue bellezze.

Tu sei bello grande splendente eccelso su ogni paese.

I tuoi raggi circondano le terre,

tu le leghi con il tuo amore:

Tu sei lontano,

ma i tuoi raggi sono sulla terra.

Quando vai in pace all’orizzonte occidentale

La terra è nell’oscurità come morta.

Vincenzo Galilei….

Nel suo Dialogo della musica antica e della moderna (1581) Vincenzo Galilei riproduce un significativo inno al Sole composto verso il 130 d.C. dal cretese Mesomede di Soli ed eseguito a Roma all’epoca dell’imperatore Adriano (Italica, Spagna, 76-Baia, 138). L’inno intona una evocazione al Padre dell’Aurora dalle ciglia di neve che con orme alate segue il giro rosato dei Poli.


INNO AL SOLE (130 dC.ca) di Mesomede di Soli, nell’isola di Creta

L’inno al Sole fu riprodotto per la prima volta, insieme all’inno alla musa Calliope e all’inno a Nemesi, nel Dialogo della musica antica e della moderna (Firenze, 1581) di Vincenzo Galilei, il quale non fu però in grado di darne la trascrizione nella notazione del tempo.

L’inno al Sole come quello (a Nemesi) fu composto da Mesomere di Soli, nell’isola di Creta, poeta e musico vissuto a Roma all’epoca dell’imperatore Adriano.

Composto intorno al 130 dC., è in ritmo anapesto e in modo ipolidico.

Padre dell’Aurora dalle ciglia di neve,

che con orme alate segui il giro rosato dei poli,

affascinante per le aure chiome,

intorno al dorso del cielo,

scagliando versatili raggi,

fonte luminosa di luce,

che giri intorno a tutta la Terra;

i tuoi fiumi di fuoco immortale

generano il giorno gradevole.

Per te il tranquillo coro degli astri

Segue danzando giù dall’Olimpo il signore,

sempre cantando una molle canzone,

godendo della lira di Febo,

la glauca Selene precede con tempo stabilito,

tirata da bianche giovenche.

Per te la mente benevola brilla gioiosa,

mentre giri intorno all’universo

dai numerosi sentieri.

Fonte: T. Reinach, La musique grecque, Parigi, 1926


Buon Natale, si sente augurare in ogni dove, da grandi e piccini il 25 dicembre. Naturalmente, l’augurio nella maggioranza dei casi è una pura coazione a ripetere. Ma coloro che pensano a quello che dicono, credono di commemorare con i loro augùri la nascita di Gesù. E la maggioranza degli àuguri forse non sa, o ha dimenticato, che la scelta del 25 dicembre come giorno del Natale cristiano solo nel 336 d C. è stata mutuata dalla festa del Sol Invictus, “Sole Invitto”, il Dio Sole (El Gabal) che l’imperatore Eliogabalo importò nel 218 a Roma dalla Siria.

L’imperatore Giuliano (Flavio Claudio) detto l’Apostata, (331-363) che nel 336 era un bambino, durante la sua maturità intellettuale compose un inno al dies natalis Solis Invictu. che purtroppo non siamo riusciti ancora ad individuare.

La storiografia sostiene che l’uomo, fin dai tempi più remoti, ha modulato al padre Sole inni di tipo idiliaco come quello degli Zugni (Oh, ascoltate la voce del dio Sole), indigeni della popolazione dei Pueblos dell’America settentrionale; filosofico come quello che Tommaso Campanella (1568 - 1639) compose nella prigione di castel Sant’Elmo; esoterico come l’adespota Mentre Febo governa il mondo sensibile che Novello de Bonis, nel 1683, stampa in una edizione dell’Arcivescovato di Napoli; trionfalisticamente radioso come quello della giovane Iris nell’omonima opera di Luigi Illica (1857 - 1919) e di Pietro Mascagni.

‘O Paese d’o Sole, patria di quel dio dalla gioventù eterna, l’Ebone di origine egiziana (figlio di Osiride) ma di lingua greca (Ebo), se n’è fatto uno su misura: ‘O Sole mio, che resta il più popolare di tutti.

Dalla seconda metà del secolo XVIII e per tutti i primi cinquant’anni di quello successivo nelle cantate encomiastiche e nelle opere eroiche di Giacomo Tritto (1733 - 1824), di Domenico Cimarosa (1749 - 1801), di Gaetano Andreozzi (1755 - 1826), di Giovanni Mayer, rappresentate nei teatri del Fondo di Separazione e San Carlo, l’inno al Sole vi compare come parte accessoria, solo Giuseppe Saverio Poli ed il terlizzese Giuseppe Millico ne composero uno come opera autonoma. Composto per recitarsi alla presenza delle loro Altezze Reali l’Inno al Sole di Poli e Millico risulta una sorta di canto di ringraziamento alla Stella fonte di luce, di vita e di energia.

Con la lucidità del pensiero, col raffinato gusto che gli erano congeniali Giusppe Saverio Poli nell’Inno al Sole, ammiccando Orazio, evoca, idealizza la flora e la fauna del fascinoso mondo creato.


1) I numeri danno un valore di misura approssimativo

2) Eliogàbalo (Sesto Vario Avito Bassiano, imperatore col nome di Marco Antonino [204-Roma 222]), imperatore romano dal 218 al 222, dopo aver vinto e ucciso il predecessore Macrino. Ebbe una sola preoccupazione: quella di imporre come dio supremo dell’Impero il dio Sole venerato a Emessa, in Siria col nome di El Gebal, “Dio dell’Alto”, della quale divinità era stato, giovanissimo, gran sacerdote Alla stessa edificò sul Palatino un Tempio: l’Elagabalium. Nel 221 associò al trono il cugino Bassiano, il futuro Severo Alessandro (208-235). Fu ucciso dai Pretoriani (Enciclopedia Rizzoli)

3)Traduzione delle tre citazioni oraziane: a) Cose modeste convengono a chi è in modesto stato; b)E’ proprio vero che ognuno deve misurarsi con la propria misura e col proprio piede; c)Giustamente iorifuggii d’alzar troppo il capo eccelso.

Montescaglioso, 28 marzo 2011

Pietro Andrisani

 


Musica_antica_e_moderna_1581_di_Vincenzo_Galilei_copia

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