Nel ricordo di Paolo Borsellino la rappresentazione teatrale di Ruggero Cappuccio
Matera. Un Paolo Borsellino ai confini della morte, quello interpretato da Ruggero Cappuccio al Teatro comunale, dopo il boato dirompente al tritolo, prima che gli ultimi battiti della vita s’inabissino veloci nel cratere di pece della morte.
Il boato delle 16 e 58 del 19 luglio del 1992, sotto la casa della mamma. Quello che lo incolla sull’asfalto di Via D’Amelio a Palermo in un abbraccio mortale con il calore della sua terra e con il cuore della mamma che lo rivedrà a pezzi, tutt’uno con la storia della Sicilia tormentata dalle occupazioni straniere. Una terra “disgraziata e bellissima” sopravvissuta con la forza del suo carattere robusto e determinato, in un caleidoscopio di colori e di antiche armonie solari.
Il rumore sommesso, malinconico, doloroso di un elicottero fermo sul punto dello scempio fa da colonna sonora incalzante straziante a quel tempo infinitamente breve che separa la vita dalla morte, mentre le immagini di una chiesa semi - diruta fanno da sfondo ad un Borsellino che si chiede se è ancora vivo o se è morto davvero.
E dopo la fiammata al tritolo brandelli di stoffe che bruciano sparse tutt’intorno al luogo in cui inizia l’altra morte “annunciata” dopo quella di Capaci. Un’immagine che fa dire a Borsellino che forse sarebbe stato meglio morire sulla spiaggia in costume, insieme all’amico Giovanni, così anche gli uomini della scientifica avrebbero raccolto meno reperti per ricomporre la mano primitiva degli assassini.
Un Ruggero-Borsellino ancora vivo e reale che trattiene con forza l’ineluttabilità del trapasso, per ri-chiamare uno ad uno le vittime innocenti della sua scorta: Vincenzo, Walter, Agostino, Claudio ed Emanuela. Sullo sfondo un’altra scena, quella del Cristo in croce accompagnato dal pianto universale delle donne, matrici della vita. Prefiche che evocano periodi di espiazioni e di catarsi della storia fragile e complessa di una umanità, che a volte arranca e fatica a risollevarsi.
Un Borsellino-Ruggero che negli ultimi barlumi della sua vita evoca gli altri martiri che lo hanno preceduto sul golgota della mafia. Una lista lunghissima di giudici coraggiosi, di poliziotti fedeli, di servitori di uno Stato, che insieme alla mafia hanno dovuto combattere finanche i servizi deviati ed i loro spietati depistaggi.
L’uomo – giudice che, pure sbattuto sull’asfalto, sembra trovare l’estremo refrigerio nell’ultimo tepore che proviene dalla viscere della terra madre, mentre lucido e pensoso si accommiata commosso dalla moglie Agnese e dai suoi figli, conscio di avere “semplicemente” combattuto la mafia e l’indifferenza della gente.
Pino Gallo