Qualcuno ha commentato e chiesto (anche in maniera informale)” di conoscere il perchè la Loggia massonica del Grande Oriente d’Italia è stata dedicata al poeta latino Quinto Orazio Flacco?” E ancora: non ”sarebbe stato opportuno mantenere e ricordare” Giambattista Pentasuglia, ingegnere telegrafista che fece parte e con onore della spedizione dei Mille con Giuseppe Garibaldi, contribuendo alla unificazione dell’Italia ?

In un precedente servizio, quello di presentazione in particolare, e poi alla conferenza stampa a Palazzo Gattini a valle della cerimonia di insediamento a Palazzo Viceconte, avevamo indicato in sintesi i motivi della scelta.

Il Maestro Venerabile, Pietro Andrisani, ci spiega in dettaglio i motivi che hanno portato alla scelta di dedicare la Loggia di Matera a Quinto Orazio Flacco.

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MOTIVAZIONE DEL NOME QUINTO ORAZIO FLACCO, DATO ALLA LOGGIA MASSONICA DI MATERA, OBBEDIENZA : GRANDE ORIENTE D’ ITALIA di Pietro Andrisani

Diciotto anni orsono si è assistito alla amara demolizione di una loggia all’Oriente di Matera, obbedienza Grande Oriente d’Italia, dal 5 marzo 2016, si gioierà per aver innalzato le colonne di una nuova officina al medesimo Ordine e alla medesima obbedienza. La loggia demolita portava il nome del materano Giambattista Pentasuglia, un garibaldino telegrafista dello sbarco dei 1000 a Marsala. La nuova Loggia si fregia del nome di un grande venosino della Roma imperiale: Quinto Orazio Flacco. Egli ha cessato di vivere 2020 anni orsono lasciando in eredità al mondo pensante squisito buon senso, precisa ed acuta osservazione con cui viene colta la saggezza comune della vita umana. Diceva il vero quando nella trentesima ode del terzo libro affermava: Non omnis moriam… (III, 30. 6). Non sarà la mia fine, molto di me verrà ricordato dopo la mia morte.
Uno dei primi che lo ha ricordato è stato certamente l’apostolo Giovanni. I canti di Orazio gli furono assai familiari. Nel libro della legge sacra sul quale vengono aperti i lavori di loggia si riscontrano tangibili riflessi del pensiero oraziano. La solenne sentenza Scagli la prima pietra su di lei chi è senza peccato che egli fa tuonare dall’autorevole voce di Cristo nel capitolo dell’adultera non ribadisce concetti di profonda solidarietà umana connessi alla colpa ed al peccato, già scolpiti nella poesia di Orazio? In alcuni passi della terza satira del primo libro, quella consacrata all’amicizia e nell’epistola a Lollio Massimo leggiamo:
Nunc aliquis dicat mihi quid tu? /nullane habes vitia?
Ora, potresti dirmi: ‘Dunque, tu, non hai difetti, tu?’;
Vitiis nemo sine nascitur: optimus ille est / qui munimis urgetur (Sat.I.3.68-69)
Nessuno nasce senza difetti: può ritenersi fortunato chi ne ha di più lievi;
Aecuum est peccatis veniam poscentem reddere rursus
È giusto rendere venia, a nostra volta, a chi ne chiede per i propri difetti.
Sat. I, 3, vv. 19-20; 68-69; 74-75);
Iliacos intra muros peccatur et extra
Si commettono colpe entro e fuori le mura di Ilio. – Epistola I, 2, 16.

Troviamo che Aurelio Prudenzio Clemente (348-405 d. C.), il poeta che meritò l’appellativo dell’Orazio cristiano, radicò interamente la sua opera letteraria nel terreno della tradizione classica riprendendo metri e contenuti dai poeti della Roma aurea. Di Orazio, oltre al metro, colse lo stile nobile, la fonica geometria del verso, l’inconfondibile eleganza linguistica, i concetti basilari con cui viene colta la saggezza dell’uomo. In una delle sue opere, il trattato allegorico La Psicomachia, nel quale egli descrive in forma epica la lotta spirituale dell’anima supportata dalle virtù che agiscono contro i vizi, si riscontrano vivi riflessi delle massime espresse in Epodi e nelle Satire oraziane, riprese nel rituale massonico. Ne accenniamo alcune:
(Virtus est medium viziorum et utrinque reductum. Epi.I,18. 9);
La virtù è qualcosa di mezzo tra (due) vizi, lungi dall’uno e dall’altro.
(Estmodus in rebus, sunt certi denique fines / quos ultra citraque nequit consistere rectum. Sat. I, 1. 106, 107);
V’è una misura nelle cose ed infine vi sono dei confini, al di là e al di qua dei quali non può consistere il retto (il giusto)
(Insani sapiensnomen ferat, aequus iniqui, / ultra quam satis virtutem si petat ipsam. Epi. I, 6.15-16);
S’abbia il nome di pazzo il saggio, d’ingiusto il giusto, se ricerchi stessa virtù oltre quanto basta (oltre il giusto termine)
(Frustra vitium vitaveris illud / si te alio pravum detorseris.Sat. II, 254-55);
Invano eviterai quel vizio se poi malamente ti rivolgerai ad un altro.
(Dum vitant stulti in comtraria currunt. Sat. I, 2. 24.);
Gli stolti, nell’evitare i vizï cadono negli opposti.
(Virtus est vitium fugereet sapientia prima / stultitiacaruisse. Epi. I, 1. 41-42.);
La virtù consiste nel fuggire il vizio e la saggezza nell’essere immune da stoltezza.

Volenti o inconsapevoli, non di rado i Cristiani fin dalle loro origini hanno intonato canti sacri infarciti di richiami e citazioni oraziane. Per una serie di motivi di natura storica e religiosa, ricordiamo l’inno a San Giovanni Battista (intonato durante le celebrazioni del solstizio d’estate) che i medievisti hanno attribuito a Paolo Diacono, studi musicologici recenti dimostrano che quel canto ricalca, ritmicamente e melodicamente, una saffica di Quinto Orazio Flacco. Parliamo dell’undicesima ode del IV libro: Est mihi nonum superantis annum, (Ecco l’orciolo colmo di vino d’Alba di noveanni) con la quale il poeta invita la fanciulla Fillide alla propria casa col pretesto di farle assaporare un suo novenario vino dei colli Albani.

Torniamo nel primo secolo con un cenno su Filone Alessandrino (20 a. C.-45 d.C.), autore del trattato De opificio mundi, dal quale James Anderson, nel 1723, attinse brevi biografie dei patriarchi biblici che riportò nella prima parte de Le Costituzioni dei Liberi Muratori. Sappiamo che Filone Alessandrino, quando racconta della vita contemplativa di una setta di terapeuti cristiani organizzata intorno al lago Mareotis, nei pressi di Alessandria, dice: al canto dei terapeuti risponde il canto delle terapeute… Quindi questa setta intonava i suoi inni riprendendo il modello esecutivo del Carmen saeculare di Orazio salmodiato per magnificare i ludi romani del 17 a. C.

Il Carmen saeculare di Orazio allora era stato salmodiato da ventisette fanciulle e da ventisette fanciulli. Perché ventisette e non ventisei o ventotto? Le due formazioni di fanciulli e di fanciulle in quel tempo osservavano l’usanza greco-romana coeva che voleva il coro composto da coreuti guidati dal corifeo. Quindi, i due cori del Carmen saeculare erano composti da ventisei coreute fanciulle e da ventisei coreuti fanciulli o voci bianche, guidati dai rispettivi corifei.
Se sommiamo ventisei a ventisei avremo cinquantadue. Cinquantadue sono le settimane che si susseguono nel corso dell’anno solare o nel viaggio ciclico dell’auriga Apollo. Inoltre, i verdi anni dei due cori erano tesi a simboleggiare la primavera di un nuovo evo, la stagione della rigenerazione, del sorriso della prima età. L’età che sprigiona rosee aspettative e gioie dell’infanzia. Perciò, il fondamento della poetica speculativa del Carmen saeculare è in completa consonanza con la fluida armonia della natura e della ragione, quindi, dell’arte muratoria.

‘Dall’alto del suo mandato liturgico, unitamente alla monumentalità dell’espressione poetica ed esoterica, il Carmen saeculare di Orazio risulta uno dei testi sacri che andrebbe tenuto sempre alla portata di mano e di mente nella biblioteca del libero pensatore di ogni credo. Il tono solenne, i contenuti di elevato linguaggio civile e morale di portata universale fanno di questo cantico un inno alla filosofia e alla teoria della gioia e della bellezza del mondo creato. Alle celebrazioni di particolari ricorrenze o di eventi storici il Carmen saeculare di Orazio ha sempre conferito il crisma della sacralizzazione.
Nel 1902, sotto il governo di Giuseppe Zanardelli, i solenni festeggiamenti organizzati per celebrare il Natale di Roma, culminarono al Palatino il sette di maggio, con l’esecuzione dell’Inno secolare musicato, per l’occasione, dal maceratese Emidio Cellini (1857-1920); nel 1927, abbigliato con musica solenne del M° Aldo Aytano inaugurò all’Augusteo, le celebrazioni del XXI aprile; la commemorazione romana del 1936 per il bimillenario del natale di Orazio, fu caratterizzata dalla spettacolare esecuzione avvenuta il 18 ottobre, a Villa Glori, del Carmen saeculare ridotto in versi toscani da Umberto Mancuso e messi in musica da Carlo Jachino (Sanremo, 1887-Napoli, 1971), direttore del conservatorio napoletano San Pietro a Maiella.
Giacomo Puccini (Lucca, 1858-Bruxelles, 1924), nel 1919, non ha fatto proprio un buon servizio al Carmen saeculare mettendo in musica seducente una sconveniente traduzione di Fausto Salvatori. Purtroppo è la versione più eseguita e più popolare. In quel 1919, il Carmen oraziano venne ribattezzato col nome Inno a Roma. Titolo calzante con le future teorie mussoliniane che aspiravano a romanizzare il nuovo corso della storia d’Italia. Infatti, qualche anno dopo, la versione pucciniana del Carmen sæculare divenne colonna sonora che commentava le manifestazioni di piazza nelle quali si esibivano i tribuni del novello fascio Littorio. Di solito, prima dell’intonazione dell’inno oraziano, il gerarca di turno, dal palco o da un balcone, tuonava:
Roma e voi.
L’Urbe d’Augusto rievocata.
Il Carmen saeculare di Orazio restituito alla gioventù italiana.

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George Bizet (Parigi,1838-Bugival, 1875), l’autore della Carmen, nel 1860, l’ultimo dei tre anni trascorsi a Villa Medici per aver vinto il Prix de Rome dell’Académie des Beaux-Arts di Parigi, contravvenendo alle rigide disposizioni volute dalle direttive del bando di concorso dell’Accademia premiante, decise di rivestire di note musicali il Carmen di Orazio, invece che il testo dell’Ordinario, ossia della Messa. Musicista dal temperamento vivace e allo stesso tempo assai meditativo, egli che aveva il culto delle discipline libertarie, ecco come si esprime a tale proposito in un passo di una lettera inviata da Roma, a sua madre, proprio nel 1860:
[…] non voglio comporre una messa prima di essere in condizioni tali da farlo bene, e cioè, in uno stato d’animo di vero cristiano
Ho quindi scelto una via insolita per conciliare le mie idee con le esigenze del regolamento accademico.
Vogliono qualcosa di religioso: benissimo, farò qualcosa di religioso, ma della religione pagana. Il meraviglioso Carmen saeculare di Orazio mi tenta da parecchio tempo […] dal punto di vista letterario e poetico è più bello del testo della messa. È poesia latina, non prosa, e tanto più scandito, più ritmico, più musicale.

Nell’autunno del 1778, il compositore François-André Philidor (Dreux, Eure-et-Loire, 1726-Londra, 1795), amico e coautore del materano Egidio Romualdo Duni (Matera,1709-Parigi, 1775), nel corso di uno dei suoi viaggi da Parigi a Londra, città dove gli era più facile imbattersi con compagni esperti di scacchi ed ascoltare gli oratori di George Frederyck Haendel (Halle, 1685 – Londra, 1759), incontrò una sua vecchia conoscenza, un esule italiano in Francia, lo scrittore torinese Giuseppe Baretti (Torino, 1716 Londra, 1789), ricordato anche come l’autore del noto giornale La Frusta letteraria.
Alcuni studiosi sostengono che dal Baretti egli apprese l’idea di musicare una Cantata su testo di Orazio da eseguire per l’inaugurazione di una Loggia massonica londinese le cui colonne dovevano essere innalzate anche da maggiorenti di casa reale. La loggia in questione era la Freemasons’ Hall, massimo tempio dell’ordine muratorio mondiale, la quale voleva stabilire un rapporto di affinità o, addirittura di continuità con il tempio di Apollo sul Palatino.
Fra i committenti del lavoro oraziano c’erano due fratelli di Giorgio III d’Inghilterra: Henry Frederyck, duca di Cumberland e William Henry, duca di Edimburgo, entrambi appassionati cultori di poesia classica e di musica: uno suonava il violino, l’altro il violoncello.
Alberto Basso, attento studioso del ramo, afferma che allora Orazio rappresentava per la Massoneria il campione del classicismo allo stato puro, il vaso perfetto nel quale si erano raccolti gli umori della poesia fatta pittura [e architettura] insieme con le delizie dell’otium contemplativo e di quell’equilibrio morale che poteva procurare gioia, sapienza, saggezza ma che ora sembrava indicare la strada verso la riconquista dell’antico.
La prima rappresentazione mondiale dell’opera di Orazio e di Philidor avvenne, dunque, nel tempio della Freemasons’ Hall, il 26 febbraio del 1779, alla presenza di un folto e attento gruppo di fratelli di ogni parte d’Europa. I soli, il coro e l’orchestra furono diretti dal fratello William Cramer (1746-1799).
Il diarista e musicologo inglese, Charles Burney (1726-1814), amico e stimatore del medico e botanico napoletano, Domenico Cirillo (Grumo Nevano, Napoli, 1739 – Napoli, 1799), il quale era stato presente all’innalzamento delle colonne della Loggia in oggetto e, quindi, all’esecuzione del Carmen di Orazio e Philidor, dirà che l’opera venne ammirata e sostenuta da tutte le persone di cultura con la segreta speranza di assistere ad una rinascita della poesia e della musica degli antichi.
La rappresentazione dell’imponente Cantata-Oratorio di Orazio e Philidor doveva segnare un periodo di splendore per le sorti della muratoria europea e lasciare ai posteri il ricordo della grande importanza intellettuale, artistica e morale.
Undici mesi dopo, sotto il venerabilato di Benjamin Franklin (1706-1799) e confortati dalla direzione musicale del napoletano di Bari, Nicola Piccinni (Bari, 1728 – Parigi, 1800), i latomisti francesi de l’atelierieurs Les Neuf Seurs (le Nove Sorelle) e de La Olympique (L’Olimpica) vollero ripetere la bella esperienza della Freemasons’ Hall. Il superbo lavoro oraziano e philidoriano, questa volta nella versione francese operata negli anni venti da Noel-Etienne Sanadon (1676-1733), venne rappresentato a Parigi, nella Sala Svizzera del Palais des Tuileries, il 19 gennaio del 1780.
Per otto anni l’opera venne riproposta ininterrottamente negli auditorï e nei teatri di Parigi, specie al Concert Spirituel, sede ufficiale dei convegni nei quali la massoneria parigina incontrava periodicamente la pittura, la musica e la poesia.
Il 30 di maggio del 1788, dopo essere stata eseguita a Roma, alla corte di papa Pio VI, al secolo Giannangelo Braschi, (Cesena, 1717-Valencia, Delfinato,1799) e a Berlino, nella reggia di Federico il Grande, affezionato compagno nei tornei di scacchi del Philidor, la Cantata veniva riproposta a Londra per conto dei Cavalieri del Molto Onorevole Ordine del Bagno.
Nel medesimo anno l’opera viene stampata a Parigi e, su consiglio di calcolato opportunismo del barone Friedricch Melchior Grimm (1723-1807), sorretto dalla mediazione dell’insinuante abate napoletano, Ferdinando Galiani (1728-1787), Fraçois-André Philidor ne sottoscrive la dedica alla zarina Caterina II (Stettino,1729 Pietroburgo, 1796), ancora amica dei Massoni. La dedica doveva sortire un grande valore politico perché in quell’epoca, la zarina andava sempre più convincendosi che il libero pensiero della Muratoria europea poteva attentare alla sua politica di decisa impronta assolutista.

Se i fratelli latomisti inglesi, francesi, prussiani e russi hanno goduto edificanti edizioni canore del Carmen saeculare, ora, all’Oriente di Matera, si vivrà momenti di elevato gaudio per aver visto gemmare da un ramo di acacia del Grande Oriente d’Italia, la rispettabile Loggia che si fregia del nome del poeta di quel Carmen: Quinto Orazio Flacco.

Pietro Andrisani