«Vite a giornata»: Il rapporto di Medici Senza Frontiere sui braccianti in Lucania
In questo piccolo grande mondo mediatizzato, da ovunque lo si guardi, ci hanno abituato all'idea che i numeri e le percentuali non siano sufficientemente catalizzatori di interesse nel racconto di un fatto. Così, questo piccolo grande mondo mediatizzato, che ragiona di pancia e di impulsi, ha preso a macinare storie.
Quelle raccolte da Medici Senza Frontiere nel rapporto «vite a giornata» sono duemila storie, duemila vite, o destini, se preferite, che avrebbero potuto parlare di ciascuno di noi, di un'umanità che ancora non può scegliere il luogo e il colore della propria nascita. Sono duemila paia di braccia, duemila schiene che si piegano a raccogliere i pomodori che noi, poi, compriamo al mercato del sabato mattina. Schiene che si flettono in quei campi che un tempo erano zappati dai nostri nonni, quella terra bianca e arsa che è la nostra, quella terra di Lucania dove ogni frutto sembra un fiore, un miracolo a cui è meglio non credere. Ed esattamente come allora, come ottant'anni fa, tra questi uomini stanchi e spezzati, ci sono i padroni, che oggi chiamiamo caporali e che, in linea ai loro predecessori, analizzano, indicano e scelgono, proprio come al mercato degli schiavi, gli uomini da portare a lavorare. E gli schiavi, neri e bianchi, non fa tanta differenza in fin dei conti, sono tutti contro tutti, poiché l'uno guadagna il pane che avrebbe potuto guadagnare l'altro se solo quest'ultimo fosse stato chiamato al suo posto.
Queste vite che arrivano da lontano, e che se avrebbero avuto una possibilità di scelta probabilmente sarebbero rimaste nella propria terra; queste vite si disfano tra le baraccopoli di Lucania, «nella periferia invisibile dell'Europa» dice A., trent'anni, dal Niger. Vite che scivolano di sgombero in sgombero, da ghetto in ghetto, aspettando il prossimo furgoncino che le porterà a piegarsi sotto il sole.
Si tratta di vite senza diritti, vite che quando si ammalano non si possono curare. Più di un paziente su due ha manifestato problemi di accesso al sistema sanitario. Una tessera sanitaria scaduta può, infatti, rappresentare un ostacolo insormontabile: se si vive in una baracca, senza luce e senza bagno, verosimilmente non è possibile eleggere lì la propria residenza. Niente residenza vuol dire niente tessera sanitaria. Un mero problema burocratico in fin dei conti che, banalmente, ci riporta al famoso caso del serpente che si morde la coda, in un circolo infinito per cui le cose devono restare quelle che sono.
E sebbene l'intervento di Medici Senza Frontiere risulti essere indispensabile (stiamo parlando di una clinica mobile che per cinque mesi effettua 910 visite e riscontra 785 casi di condizioni mediche connesse alla situazione disumana di vita e di lavoro dei migranti) per invertire la tendenza e sovvertire il vizioso giro di giostra è necessario un piano programmatico che coinvolga le istituzioni. Ciò vuol dire: abbattere le difficoltà di accesso al sistema sanitario anche attraverso l'attivazione di servizi di mediazione linguistico-culturale negli ospedali e definire strategie di lungo periodo per garantire soluzioni abitative dignitose ai braccianti, così come raccomandano MSF alle autorità locali. Autorità sotto gli occhi e il potere delle quali sfila, fantasma, questa corte dei miracoli. Il «potere di fare qualcosa», direbbe l'uomo della strada, qui dove tutto sembra essersi cristallizzato in un infinito altrove, alla disperata ricerca delle altrui colpe. Meccanismo senza uscita di un gioco politico di spregiudicata affabulazione. Un gioco basato sulla tecnica della distorsione della realtà. Un sistema disposto a sottrarre peso e spazio alle effettive dinamiche sociali pur di cavalcare e rincorrere il consenso di una base elettorale ormai stanca di porsi domande e per la quale nessuno si impegna a fornire reali e critiche risposte.
Simona Pellegrini